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In morte d’un padre

  • Immagine del redattore: G F
    G F
  • 3 giu
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 4 giu

Ricordo ancora i miei giorni di liceo quando, un po’ controvoglia, ero costretto dalle circostanze a studiare Italo Svevo e la coscienza del suo Zeno. Mi sembrò, a quei tempi, un mattone, buono per costruire qualcosa e basta. Ovviamente era il filtro di un ragazzino posto di fronte al dolore, a quel male di vivere che avrei incontrato più tardi in Montale, che ancora oggi apprezzo infinitamente in più. Zeno aveva un rapporto strano, conflittuale - cosa non sorprendente - con il proprio padre. Gli ascriveva colpe, forse anche molte non sue, un po’ come molti di noi hanno fatto, o fanno, con i propri padri. Eppure, quando a cavallo fra i capitoli 3 e 4 de “La coscienza di Zeno”, il padre di Zeno è sempre più confuso, balbetta, perde coscienza ed infine muore, non senza uno schiaffo rifilato in ultimo al figlio, le reazioni di Zeno sono quelle di una persona normale in una situazione del genere: non comprende in pieno il momento, cerca con tutte le forze di attaccarsi ad ogni briciolo di speranza, vive fasi di senso di colpa e, infine, cade nella disperazione più totale, credendo di non essere capace di nulla da solo, ora che le “radici” sono venute meno. In questa situazione mi ci sono trovato lo scorso anno. E da medico, nonostante avessi abbondantemente capito che mio padre era giunto, seppur precocemente, al termine della sua esperienza terrena, a dir poco spinosa nei suoi ultimi 15 anni, anche per me ci sono state tutte le fasi di cui sopra. Con tempistiche un po’ diverse, ma ci sono state. Ricordo ancora quando uno dei miei cugini, eccellente collega d’altronde, mi spiegò che era inutile provare quel tipo di sensazioni, davanti a mio padre ormai defunto e con quella corrosiva dolcezza tipica dei chirurghi, perché né io, né lui eravamo Gesù Cristo o figure simili, né avevamo alcun potere di fermare un ciclo di vita che, in un modo o nell’altro, era arrivato a compimento. Fu esattamente in quel momento che smisi di avere pensieri neri - ormai inutili - e che forse avevo da anni. Questo non vuole dire semplicemente dover andare avanti e dimenticare chi c’è stato. Anzi. La morte, parte integrale della vita, un processo molto più lungo del semplice esalare l’ultimo respiro, è il momento del congedo dagli affari terreni e che da senso a tutto ciò che è venuto prima. D’altronde, sia Buddha che Gesù Cristo affermano che l’assenza della loro figura corporea dal mondo, rispettivamente dopo la morte e la resurrezione, è ciò che da senso alle loro storie, diverse eppure simili per certi versi.

Ed è in questa ottica che io ho vissuto - e vivo - la cessazione dell’esistenza terrena di mio padre. E la sensazione di senso di colpa, di disperazione, lascia il posto al privilegio di aver condiviso un tratto di strada con qualcuno che ci ha - non da solo, chiaro - messo al mondo. Qualcuno che spesso nel bene e talvolta nel male, ci ha plasmati, a sua immagine o all’esatto opposto. Un’innegabile influenza. Ogni volta che mi guardo allo specchio, che mi cadono gli occhi sulle mie mani, le mie gambe, rivedo banalmente il corpo del mio papà. Ogni volta che mi sento dire “Mo’ vediamo”, sento la sua voce. Ogni volta che mi offrono qualcosa a tavola - insalata, spesso e volentieri - e prima dico no, poi dopo qualche secondo dico si, addirittura vedo mio nonno paterno. Non ho figli, ma credo che se ne avessi, vedrei lo stesso in loro. Dunque: è questo morire un qualcosa che esiste per davvero? Certo, è innegabile. Dobbiamo fare i conti prima con la fisicità della morte e poi con l’assenza di fisicità che ne consegue. Ma dobbiamo farlo in modo costruttivo, per noi stessi e chi ci circonda, perché “non siamo Gesù Cristo”, non possiamo cambiare ciò che è stato ed è, ma soprattutto trasportiamo dentro di noi chi non c’è più. E  loro in noi vorrebbero continuare a vivere, non morire nuovamente.

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