
Jago Museum, Napoli.
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- 10 mar
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E' un concetto quasi dato per scontato che, quando si va in un museo o galleria d'arte, si va per ammirare capolavori di artisti che sono quasi sempre non più in vita, quasi come se fosse la morte dell'artista, non altro, a dare dignità e valore a quanto viene esposto. Ed è un concetto, spesso e volentieri, parecchio insito nel sistema operativo delle menti italiche: l'applauso all'uscita dalla chiesa in un funerale, è il momento in cui si diventa, a seconda dei casi, una brava persona, un benefattore o addirittura un santo.
Gli artisti di un tempo, per ottenere gloria e fama, dovevano eccedere nell'eccellere, non avendo a disposizione altra pubblicità per se stessi che il frutto del proprio lavoro e mettendo nei fatti eternamente nell'ombra tutta una serie di pittori, scultori, ma anche poeti che, seppur oggettivamente grandiosi nella loro arte, non avevano saputo incidere nello stesso modo, non avevano trovato il mecenate giusto o erano stati semplicemente sfortunati e pertanto destinati all'oblio. Nella nostra triste epoca, nella quale si antepone la spesa militare alla salvaguardia della cultura, del patrimonio artistico o più concretamente, del sistema sanitario, un vantaggio per l'artista moderno è quello di avere la vetrina dei social, di internet in generale, per propagare le proprie idee, la propria arte, farsi conoscere e - non si vive di sola aria, né è una vergogna - crearsi un proprio mercato.
Qui si inserisce Jacopo Cardillo, in arte Jago, classe '87, da Anagni (FR), scultore contemporaneo e molto in vita, autodidatta e che, grazie all'estrema, innata padronanza nella sua arte, ormai rara a trovarsi, ha osato sfidare i mostri sacri del passato, guadagnandosi l'ammirazione di una grande fetta della critica d'arte, italiana e non solo; parole d'elogio per lui anche da Vittorio Sgarbi, sempre un po' severo ed esigente con gli artisti contemporanei. Sebbene attivo anche a New York, Jago ha trovato in realtà la sua dimensione a Napoli, nel Rione Sanità, dove ha aperto da circa due anni quello che è lo Jago Museum, nella chiesa di Sant'Aspreno ai Crociferi, dove fra marmi e gessi, sono esposte circa una decina delle sue opere.
Dimenticate la dimenticabile scultura moderna: Jago ritorna alla forma, al classico dei grandi, senza alcuna concessione all'astratto, proiettando la tradizione, tuttavia, nel presente e nel futuro, in modo tangibile. E lo fa con coraggio e un filo di irriverenza, anche difficile da digerire: scolpire il 'Figlio velato' e piazzarlo a meno di un chilometro in linea d'aria dal Cristo Velato, può essere o il gesto di un pazzo o di chi sa quello che fa. E pensare che si era progettato, in un primo momento, di posizionare il Figlio velato proprio ai piedi del Cristo Velato di Sanmartino: troppo, ma sarebbe stata una giustapposizione che, forse, il Principe Sansevero avrebbe apprezzato.
Ma cos'è, questo Figlio Velato? E' un'opera che nasce in primo luogo come una sfida personale di Jago al Sanmartino - ognuno ragioni privatamente sulla cosa, ne tragga pure i suoi teoremi e corollari, ma li tenga molto lontano dal giudizio dell'opera in sé - ma che poi gode di vita propria, prende una sua strada. Come per il Cristo, anche qui abbiamo una figura distesa, velata, congelata nell'abbraccio della morte; si tratta, tuttavia, di un bambino, o quantomeno di una figura dalle dimensioni di un bambino, ma con la testa ed una mano volutamente sproporzionate rispetto alla figura, più adulte. Ed è una sproporzione che disturba, in modo diverso, a seconda del punto di osservazione dell'opera. Se non è possibile, per tale motivo, cogliere bellezza nel soggetto scolpito, sicuramente si rimane colpiti dalla fisicità del soggetto, oltre che dalla strabiliante abilità manuale, la perizia nell’ammantare d’un sottile velo marmoreo la povera figura che giace esanime. Un lavoro maniacale, certosino che, complice la sublime qualità del marmo americano di base, inganna l’occhio soprattutto nei panneggi ai piedi della figura e appare più che reale. Premessa la qualità suprema dell’opera, il livello elevatissimo dell’artista, i significati, i sottintesi morali alla base delle opere, compreso il Figlio Velato, peccano di un conformismo che risulta quasi spiacevole, che delude soprattutto perché lascia intravedere o intendere una certa visione del mondo da parte dell’artista, se non propriamente politica, sicuramente polarizzata, che rischia di limitarne il pubblico. E di limitare l’artista stesso, che è di caratura mondiale. Questo perché, un po’ come Wilde - il suo manifesto artistico dovrebbe essere utilizzato a mo’ di decalogo da ogni artista - io penso che intenti morali, in un’opera d’arte, siano imperdonabili manierismi stilistici o, peggio, un tentativo di strizzare l’occhio ad una certa fascia di pubblico - o di acquirente, sono cattivo, lo so - che appunto sembra voler mettere da parte l’opera in sé, ma mettere in evidenza l’artista e l’idea che cerca di passare. Questa è l’unica, grande pecca che trovo in Jago. Per dirla sempre con Wilde, il fine dell’arte è rivelare essa stessa e nascondere l’artista; di fronte a una figura di bambino, o quel che è, in chiara posa mortale, ha poco senso richiamare l’ispirazione tratta da tragiche scene di migrazione andata male: un bambino morto è un bambino morto ed è già di per sé una enorme ed universale tragedia, a prescindere da se si tratti di un esule siriano sulle coste turche o una ragazzina napoletana falciata fra i vicoli di Forcella da un proiettile di passaggio. Nonostante queste mie impressioni, personalissime, il Figlio Velato è da vedere. E attenzione: è posto in una cappella seicentesca della Chiesa di San Severo, sempre in Sanità, ma a 10 minuti a piedi dal plesso principale dello Jago Museum.
Le opere esposte in quest’ultimo, tutte o quasi di ispirazione classicheggiante, ma profondamente inscritte nel presente, intrise di realismo, partono in gran parte da temi classici - Narciso, la Pietà, una Cassandra violata di laocoontiche impressioni, addirittura una Venere vecchieggiante - con variazioni sul tema sicuramente volte a stupire e provocare; qui mi astengo nel pronunziare giudizi se non sulla qualità alta, altissima, delle statue presenti, una rarità al giorno d’oggi.
L’ego particolarmente pronunciato dell’artista, che tuttavia ci consente di toccare una delle statue presenti, il mastodontico Self, che lo ritrae e che accoglie il visitatore all’ingresso - a quanto pare Jago non si riconosce più in quell’immagine - l’ego, dicevamo, si accoppia ad una visione imprenditoriale e proiettata nel sociale, evidente appunto nelle opere. che vede ceduta alla Cooperativa La Sorte, gestita da ragazzi della Sanità, la gestione del Museo e delle visite guidate, ponendo le basi per una riqualificazione del Rione, che non è mirata a snaturarne l’essenza e che soprattutto crea posti di lavoro.
Infine, a me Jago piace. Non capita tutti i giorni di stimolare la scena artistica moderna come fa lui, con un’arte al contempo con i piedi nel presente e la testa nel passato. Chi lo paragona a Michelangelo - giustamente o ingiustamente, scegliete voi - sicuramente lo desidera come un Michelangelo moderno. ne abbiamo bisogno, in quest’epoca di mezzo della storia, come direbbe Tyler Durden. Manca ancora tuttavia - c’è tempo, c’è modo - per lasciare qualcosa ai posteri di realmente longevo, universale e non particolare, qualcosa di talmente forte da non aver bisogno di spiegazioni e che abbia vita a se. E allora si che la stoffa sarebbe quella con cui si vestono le Leggende. Nel frattempo, seguiamo con attenzione.
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