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Arrivo a Venezia.

  • Immagine del redattore: G F
    G F
  • 7 mag
  • Tempo di lettura: 3 min

Un’opinione assolutamente condivisibile circa le modalità migliori di arrivo a Venezia, viene espressa nelle prime pagine di ‘Morte a Venezia’ di Thomas Mann. Probabilmente eccedendo nei toni, sempre un po’ troppo enfatici e benevoli nei confronti del passato, punitivi nei confronti del presente e del futuro, Mann consiglia al lettore di arrivare a Venezia come il protagonista del suo libro, cioè via mare, deplorando l’arrivo in treno, troppo diretto, troppo già sul Canal Grande, poco anticipato dall’emozione della visione eterea da lontano. L’arrivo in aereo, il mio di stamattina e di molte altre volte, verrebbe da Mann bollato come una vergogna, un insulto, se non altro perché, soprattutto arrivando da sud, si è costretti a passare sulla selva di ciminiere di Porto Marghera, sul cadavere dell’ex Petrolchimico e delle fabbriche che ancora oggi, con tutta probabilità, pompano veleno nelle vene acquee della città in pericolo. Eppure, un lato di Venezia è anche quello, l’antitesi totale - crudele - tra la città più unica al mondo e la modernità che si, in questo caso meritava di essere punita per bene. Tuttavia, chi ama Venezia, ma soprattutto la conosce per quella che è, nel bene e nel male, sa che il suo fascino, la sua attrattiva, nascono dalla decadenza infinita, piena di ferite, alcune autoinferte d’altronde, che la caratterizzano da qualche secolo a questa parte. E dunque anche l’arrivo aereo ha una sua dignità, un suo significato, dato che prima abbraccia Marghera, poi pian piano la laguna, che si apre plumbea sotto il primo cielo del mattino, punteggiata da briccole, tratteggiata da barene, sulle quali l’aereo plana dolce, quasi accarezzando il misto terracqueo che d’improvviso si fa lunga striscia di catrame. In breve siamo fuori e, memore comunque delle lezioni che i libri ci lasciano, un motoscafo è lì ad aspettarci e ad aprirci la strada, per modo di dire, riscaldata dal sole nascente che illumina quell’angolo di nord-est. Ed è subito un fiorire nuovamente di briccole, barene, con i loro fiori aromatici schiaffeggiati dal sale, comici pali dell’alta tensione infilzati nelle acque melmose e lentamente, quasi a tradimento, emerge dai flutti quella cattedrale di pietra che sembra galleggiare sulle acque, quasi fondersi, come accennava poeticamente John Ruskin nelle sue ‘Pietre di Venezia’, tra la dimensione dell’acqua superiore e quella dell’acqua inferiore, tra cielo e terra, a diventare un’entità apparentemente immota, immortale, senza tempo e senza fine. Ricordo ancora che leggere le parole di Ruskin, un inglese che ha dimostrato con i fatti di comprendere Venezia da molti punti di vista, più di molti veneziani stessi, fu un’esperienza quasi mistica. Ma soprattutto la principale base delle mie conoscenze artistiche, limitate e dunque molto condizionate da quella visione. Fu così, ho scoperto di recente, anche per Margherita Sarfatti. Ritornando alla vista, da lontano si riconoscono prima per altezza, poi anche per mole, in seguito per colore e dettagli, i santi pietrificati in campanili che domaninano la città, San Marco e San Giorgio in primis. I palazzi, le bifore, le trifore, le pompe di benzina acquee, fruttivendoli in barca, sfilano piano piano davanti ai nostri occhi, finché non approdiamo infine alla Giudecca ed attracchiamo alla Palanca, di fronte alle Zattere ed all’immensa chiesa dei Gesuati, dinanzi alla casa del pittore che stiamo andando a trovare. E una volta messo piede a terra, per quasi 40 ore, il contatto spazio-temporale con il mondo esterno, fuori da Venezia, è venuto fortunatamente meno. Ed è cominciata questa piccola avventura.

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