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Fondamenta Sant’Eufemia

  • Immagine del redattore: G F
    G F
  • 17 mag
  • Tempo di lettura: 4 min

La casa del pittore, con studio annesso, giace sulla Fondamenta di Sant’Eufemia, alla Giudecca, probabilmente da quasi tre secoli. È un edificio che appare slanciato grazie alle finestre allungate che tendono verso il cielo, un po’ come tutto ciò che è stato fatto in stile gotico veneziano, ma in realtà è un edificio di soli due piani, che doveva un tempo essere bianco e ora appare soltanto grigiastro e decadente, pur mantenendo il suo intrinseco ed innegabile fascino. È troppo presto per bussare alla sua porta. Abbiamo un appuntamento a metà mattinata con lui, preso in maniera quasi incredibile via mail, tramite la moglie; abbiamo un’ora abbondante, io e lei, per esplorare una delle fondamenta probabilmente più antiche ed immutate della città, eppure meno battute, se non forse durante la festa del Redentore.

La Giudecca è un posto a Venezia dove ci si viene di proposito, bisogna averci un buon motivo ed io la fondamenta di Sant’Eufemia la conosco bene, fin troppo, anche se questa storia appartiene a pagine di un altro volume che, per mia somma fortuna ed avvedutezza, ho lasciato volutamente per buona parte in bianco ed ho abbandonato anni fa in una calle semibuia. Ciò che emana questa isola, o meglio complesso di isole, è una sensazione che sta a mezza via fra l’anseatico spinto, monumentale, del Molino Stucky ora destinato ad hotel di lusso, il portuale atipico alla Sankt Pauli, grazie al costante carica-scarica sulla lunghissima riva e la selva quasi mancuniana di vecchi stabilimenti industriali, Junghans, Dreher, con annesse ciminiere. Il tutto con un accenno di mare aperto alle spalle e la bellezza aurea e vecchieggiante dei sei sestieri di Venezia sul davanti.

Da sempre più facilmente raggiungibile economicamente che fisicamente - si rimane facilmente bloccati in caso di acqua alta - fu il primo luogo di fuga della nobiltà veneziana, che qui costruì ville, stese orti, innalzò vigne e qui veniva a nascondersi in insospettabili, lunghissimi pomeriggi a fare chissà cosa, con chissà chi. Nel tempo tutto ciò è evoluto, o forse involuto, in quello che oggi appare come una stramba accozzaglia di studentame al centro e sul retro, turisti low-cost da un lato e gli ospiti del mega-super-albergo dall’altro. Questo può dare un’impressione sbagliata del posto, che nasconde tuttavia pagine di storia cittadina, storie di vita, talenti, qualche ultimo veneziano autentico ed esempi di imprenditoria ante-litteram che ancora oggi fanno scuola.

È ancora molto presto al mattino ma, previdentemente, ho organizzato le cose in modo tale che il motoscafo ci lasciasse davanti la casa del pittore, ma anche davanti ad uno dei bar della storica Majer, azienda veneziana inizialmente specializzata nel commercio del caffè, che poi ha cominciato anche a farlo e servirlo. E quindi mentre io e lei rinasciamo a nuova vita davanti ad un cappuccino e a un pain-au-chocolat, non posso fare a meno di ammirare il canale della Giudecca, la sua curva ampia quasi tracciata con un compasso e la doppia riva che da secoli ogni giorno si affronta e comunica mandandosi messaggi tramite vaporetto, con i suoi tempi oppure tramite il moto ondoso anomalo, artificiale, di barche e navi di ogni genere e dimensione, al quale anche noi abbiamo - ahinoi - contribuito. Una piccola ma costante erosione, quasi invisibile, poco apprezzabile, che si maschera in quelle chiazze d’acqua che si accumulano sulla fondamenta di Sant’Eufemia anche se non piove, anche se non c’è acqua alta. E s’arrotonda, si sgretola piano il margine di quello che noi profani, noi foresti, come dicono loro qui, chiameremmo marciapiede, lungomare, ma qui è semplicemente una fondamenta, che a differenza degli altri camminamenti della città, ha la caratteristica di avere contatto diretto con il mare aperto, in questo caso il canale più ampio, più profondo della città. Le due sponde, dall’altro lato le Zattere, di qui appunto Sant’Eufemia alla Giudecca, sono gemelle eppure diverse, seguono un medesimo stile ma sono come due sorelle che hanno sposato mariti dalle opposte fortune. Di là, una maggiore opulenza, nell’architettura, nelle chiese, una sorte in dote che sembra migliore e che sembra collegata alla funzionalità prevalentemente commerciale di tale luogo; non a caso ad una estremità delle Zattere, verso Punta della Dogana, lì dove Canal Grande e Canale della Giudecca si fondono, ancora si trovano, malamente mimetizzati, i Magazzini del Sale. E sale voleva dire ricchezza. Di là, d’Annunzio, Pound con sua moglie Olga Rudge, Italico Brass con il nipotino terribile Tinto, le Gallerie dell’Accademia; di qua, un’umanità più concreta, in formazione, o anche più disperata, talvolta semplicemente un po’ misantropa e modernamente ascetica.

Destini opposti o semplici diverse fasi della vita?

Pensando questo, dopo aver lottato con i gabbiani che subodoravano il pain-au-chocolat, ci alziamo e ci rechiamo verso la Chiesa del Redentore, la chiesa della festa venezianissima che, in estate, riesce nel miracolo di pacificare ed unire le due sponde con un ponte votivo fatto da barche, un modo di coniugare fede ed esigenze pratiche che trasuda ingegno e modernità, nonostante sia una tradizione antichissima. La chiesa, opulenta ed imponente all’esterno, è completamente intonacata di purissimo bianco, poche decorazioni, pochi fronzoli; un po’ come il popolo che abita questa città, apparentemente eccessivo, arrogante, dal volume alto, ma in realtà di una semplicità disarmante, di una schiettezza come poche, l’opposto dei fronzoli e ghirigori che decorano ogni angolo di questo posto. Accendo una candela per mio padre e ce ne usciamo. Il lungo camminare verso la casa del pittore, mostra per intero come la Giudecca abbracci il canale, più che essere disegnata da esso e, inevitabili, ancora più contraddizioni: nella stessa linea di vista, un ostello malandato, un cane al guinzaglio che alza la zampa e si libera contro un muro, l’imponente mole del Molino Stucky, la sua guglia luminosa e dominante e, in fondo, l’inferno industriale sceso in terra di Porto Marghera, le sue ciminiere fumanti, giganteschi archi metallici, lamiere. Un qualcosa che non poteva lasciare indifferente il pittore - un inglese d’altronde. E così, arrivando piano piano alla porta del pittore, mi ricordo della fabbrica della Tate&Lyle che si vedeva da casa mia a Londra, di come anche lì lo stabilimento si affacciasse su acqua torbida, il Tamigi in quel caso, un fascino anomalo, forse patologico. Ma condiviso. Si sono fatte le 10, mi avvicino al pulsante bianco sulla porta, dove c’è scritto semplicemente “press”. E in un minuto fummo inghiottiti nella casa del pittore.

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