Verso Campo Santa Margherita.
- G F
- 9 dic
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Mano nella mano, dopo aver oltrepassato il Bottegon, io e lei prendemmo qualche metro più avanti il ponte delle Maravegie, che conduce direttamente all’interno di uno di quei dedali di calli, rami, sacche ed infine fondamenta che sono al contempo uno dei fascini di Venezia ed un grande mal di testa per i foresti. Posso dire, almeno per quanto riguarda il sestiere di Dorsoduro - perché a Venezia non ci sono quartieri, ma opportunamente sei sestieri - questo per me non è un problema, ma solo un piacere. La sacca della Toletta doveva, un tempo, non essere calpestabile, bensì navigabile, seppur a fatica: i mattoni delle case, vicine, talvolta troppo, consumati dall’acqua e dal vento, accompagnano ed obbligano la camminata fino a raggiungere la calle omonima. Sulla destra, nella direzione che stiamo prendendo, verso nord, spunta Al Vecio Marangon: una sera di anni fa io e lei chiedemmo se c’era posto per mangiare - erano i tempi della moderna peste e sentivamo responsabilità nei confronti degli elementi più fragili della famiglia - ma fummo scoraggiati dall’affollamento nel locale e, ancora ad oggi, non mi sono mai fermato a mangiare li. Credo di essermene pentito poi, in seguito, di non essermi fermato lì; ogni volta che mi capita di passarci, negli anni, rivolgo sempre il mio sguardo lì e quella taverna calda, accogliente, è sempre lì. È oramai diventata una proiezione della mia mente e dei miei desideri e, probabilmente, così rimarrà. In calle della Toletta, camminando verso il primo spazio aperto tra le case, che è campo San Barnaba, più volte negli anni io e lei ci siamo persi in una libreria quasi centenaria, che ha lo stesso nome della calle dove è situata e che è, a mio parere, una delle più fornite, con una esposizione che mette in chiaro risalto il gusto e la cultura di chi ci lavora. Io che ero un assiduo frequentatore di librerie, prima che diventassero catene a livello nazionale e dunque, nel migliore dei casi, punti vendita senz’anima, gestiti con la logica e non con il cuore, attualmente non ho il tempo necessario - già cosa molto grave - né più esistono le librerie storiche e a conduzione familiare che in città mantenevano alta o almeno a livelli di decenza l’offerta di buoni libri. La Toletta profuma di carta e di vecchi ricordi, anche un po’ d’infanzia nel mio caso: la migliore libreria della mia città era proprio all’uscita di quella che è stata la mia prima scuola e per ben otto anni, già dalla prima elementare, era per me naturale e quasi necessario fare uno o più giri a settimana tra quegli scaffali, specialmente al prezioso piano interrato, dove si nascondevano la maggior parte delle avventure che hanno fatto viaggiare la mente del me piccolo bambino. E quindi ogni volta davanti alla Toletta non posso far a meno di entrare, riprovare l’emozione del lasciare che sia il libro a venire a me e non viceversa. Intendo in generale, non solo a Venezia. A volte basta poco: il colore della copertina, il nome esotico dell’autore, l’argomento atipico; altre volte, ed è capitato, sono uscito a mani vuote perché non mi è saltato nulla di interessante all’occhio. Bisogna saper accettare la realtà per quella che è, senza crearsi costrutti, anche nelle piccole cose - almeno credo. Quel giorno eravamo di fretta ma sapevo già che nel pomeriggio lei ad un certo punto si sarebbe ritirata in stanza: decisi dunque di giocarmi la Toletta nel pomeriggio. Avanzammo rapidamente verso il Casin dei Nobili ed il suo sotoportego, fino ad entrare nel sole, che finalmente batteva e anche forte, in campo San Barnaba. La luce era accentuata dal bianco estremo della facciata della chiesa neoclassica che si affaccia sul campo ad est e che costeggia una vena d’acqua, che è facilmente superabile grazie al ponte dei Pugni. Questo ponte, che si chiama così proprio per gli ovvi motivi - scazzottate rituali e codificate erano qui organizzate per risolvere questioni o per diletto - fronteggia il bacaro omonimo, posto nel quale in una sera particolarmente fredda e piovosa, lei scoprì i vini rossi veneti. Questo ponte dal turbolento passato oggi è la via d’accesso ad un lungo e largo corridoio tra vecchie case, un canale interrato - rio terà - a forma di L e che conduce in Campo Santa Margherita. È, questo, uno dei campi tra i più cari al mio cuore, un po’ perché è un luogo di ritrovo, pieno di giovani e locali, un po’ per la sua forma bizzarra, le sue atipiche architetture e costruzioni. In un angolo, un alto pennone rosso, con il vessillo di San Marco; al centro del campo, una enorme vera da pozzo ed alberi - rarità - fontanelle, gabbiani. Quasi gettata al centro del lato meridionale del campo, sorge isolata dalle altre costruzioni la Scuola dei Varotèri, un edificio più largo che alto, che un tempo ospitava la scuola - o corporazione - dei pellicciai, che li si era trasferita secoli addietro, ricostruendo fedelmente la medesima sede che avevano originariamente nel sestiere di Cannaregio. Sul lato posteriore della Scuola, quella che oggi è superficie calpestabile era, appunto, il canale interrato che oggi dal ponte dei Pugni conduce al campo; è questo, non un’illogica programmazione edilizia, a dare l’inusuale aspetto a questo campo con una casa - in effetti - quasi lanciata casualmente al suo centro. Qualche tempo fa, in una delle nostre scorribande, prendemmo una camera in un portone infilato in una calle che sarebbe eufemistico definire stretta e che dava direttamente sul canale che scorre ad ovest del campo. Era una di quelle case veneziane che ancora oggi sono pavimentate all’antica e dove l’umidità fa parte dell’arredamento, di quelle case che lasciano intravedere che sono state particolarmente vissute da gente del posto, con una vista sul canale e sulla quotidianità ormai sempre più rara di Venezia: la signora anziana che va a fare la spesa, un’altra che va a messa allo scoccare della campana, un’altra ancora che apre la finestra scricchiolante al palazzo di fronte; ho provato, anche in questa occasione, a trovare una stanza lì, ma purtroppo non c’è stata possibilità. L’uscita dalla calle strettissima, quasi invivibile dal campo, perso nella sua frenesia, sembrava come un cambio di dimensione, di epoca; un passaggio dal silenzio al suono, al frastuono. Proprio davanti a quella calle, chiusa da un cancello perché privata, intravidi da lontano ed aiutandomi con le mani per ripararmi dal sole, il mio amico e Magico Vento, che mi cercavano con gli occhi, mentre amabilmente conversavano ed aprivano le danze, con un calice in mano.

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