Il mio amico.
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- 4 giorni fa
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Il mio amico conversava amabilmente con Magico Vento, entrambi in piedi davanti ad un locale la cui insegna recitava malinconicamente soltanto la parola “Caffè”. L’oggetto della discussione era, con estrema probabilità, il vistoso ritardo con il quale io e lei viaggiavamo a braccetto da un bel po’. Loro due non avevano perso tempo e avevano già aperto le danze, prendendosi da bere in uno dei locali del campo. Vederlo lì, nel suo cappottone scuro e lungo, felicemente provato da un matrimonio il giorno prima, poco fuori città, fu per me una sensazione sicuramente positiva, ma inusuale: per molto tempo - e ci conosciamo da oltre trent’anni - lui mi è sembrato come esistere sempre e soltanto nella dimensione della nostra città; a parte qualche rara e molto recente sortita romana, in effetti, credo che questa rapida, intensa avventura veneziana sia la prima vera volta che siamo nello stesso posto e particolarmente lontani da casa. Lo sguardo a mezza via tra il piacionico ed il perennemente imperturbabile è sempre quello, immutato, da quando lo conosco. Quello che ci ha uniti all’inizio - sicuramente ancora oggi - è stata la pallacanestro. Quando l’ho visto in campo Santa Margherita, mi è passato davanti un po’ tutto quello che abbiamo fatto negli anni e si, lui era precisamente quel bambino con il quale ci si attardava, dopo gli allenamenti, negli spogliatoi dove non avevamo nemmeno delle panchine per poggiarci e quindi spesso e volentieri sedevamo a terra. E si fantasticava, perché se spesso e volentieri tante cose sono mancate - la serenità, qualche spicciolo in più - la fantasia non c’è mai mancata; a volte ci siamo anche colpevolmente nascosti in questo mondo di lunghe conversazioni, audiocassette e cd abusati fino all’inutilizzabilità, videogiochi e tanto, tanto campetto. Ogni stimolo era qualcosa che faceva partire la prossima idea, la mossa successiva. In alcune circostanze, sentivo che avere sempre qualcosa da fare, era un buon modo per mettere in moto il cervello, per non avere pensieri neri, evitando di atrofizzare neuroni. Ricordo ancora il pomeriggio, un po’ triste per vari motivi - che non è giusto trattare in queste righe - nel quale per puro caso la radio passò “Smells like teen spirit” dei Nirvana. Fui rapido a sacrificare la registrazione precedente sulla cassetta che già era nello stereo e quella canzone, con l’inizio tagliato per gli ovvi motivi, fu la colonna sonora del nostro definitivo abbandono dell’infanzia. Vederlo lì, in uno dei campi di Venezia, in un ambiente sicuramente molto più mio che suo, me lo fece vedere anche per quello che è oggi: un uomo fatto e finito, come il sottoscritto d’altronde e ho realizzato, avvertito, il passaggio del tempo. Quel bambino che stava in palestra con me, sedeva a terra in uno spogliatoio a dir poco lercio, era cresciuto; e con lui io. Questo mi ha portato a razionalizzare che, sebbene molte cose siano cambiate nella mia vita, il mio amico è stato una costante e tanti nostri rituali amicali in effetti lo sono anch’essi, eccome. Ora, una delle cose che più mi caratterizza e che magari a volte può essere fraintesa o, peggio, derisa - specialmente dall’invidiosetto insoddisfattino acidello di turno - è che amo condividere le cose che mi piacciono. Il vino soprattutto. Quindi quando si è creata l’occasione unica ed irripetibile, irrinunciabile, perché il primum movens di questa gita è stato proprio quel già citato matrimonio, ci siamo organizzati per fare un giro tra bacari a Venezia, cosa che io e lei avevamo già fatto qualche volta e sempre anche in presenza di Magico Vento. Ero perciò molto felice che fossimo tutti lì, tutti e quattro. Anche perché nella vita, finora almeno, tra me ed il mio amico, ho avuto più modo io di esplorare, vedere posti, conoscere persone e spesso e volentieri l’ho fatto viaggiare con i miei racconti, storie di tutto ciò che i miei occhi difettosi possono aver visto in giro qua e là. Quello però era il giorno in cui anche lui, finalmente, poteva apprezzare la bellezza, esplorare un luogo nuovo, lontano da casa, tutti insieme. E l’abbraccio che mi diede quel giorno è lo stesso abbraccio che ci diamo - non chiedetemi perché - ogni volta che la nostra squadra di basket vince una partita, poco dopo l’ultima sirena, una domenica dopo l’altra, da ormai tre decenni.

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