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Il pittore inglese.

  • Immagine del redattore: G F
    G F
  • 22 mag
  • Tempo di lettura: 5 min

Qualche secondo dopo aver bussato alla porta, quest’ultima si aprì verso l’interno con un ‘clac’ sordo e metallico, lasciando intravedere nient’altro che penombra. Un po’ titubanti, quasi con timore reverenziale, io e lei entrammo nello spazio ristretto e, nonostante l’orario mattutino, poco illuminato. Torreggiante su di noi, dall’alto della ripida scala e dei suoi ottant’anni, il pittore inglese ci osservava silenzioso, interrogativo, solo moderatamente guardingo.

-“Abbiamo un appuntamento con lei alle 10..”, azzardai io.

-“Si, lo so, lo so. Salite pure. Ah, lui è Cappuccino”, rispose il pittore, indicando un festoso, ma silenzioso cagnolino, che si stava lanciando verso di noi ad accoglierci. Cappuccino, pensai, che bel nome per un cane: che sia il colorito bianco e marroncino ad avergli dato il nome? E allo stesso tempo pensai ad Ivana, che stava con tutta probabilità ancora ronfando sul suo cuscino e che, nostro malgrado, non avevamo avuto modo di portare con noi. Portare Ivana a Venezia è da sempre un mio pallino, vederla sguinzagliata tra calli e campielli, ma non so se sarà mai possibile. Pensai che Cappuccino fosse fortunato ad essere, in un certo senso, un abitante di Venezia.

Fummo invitati dal pittore, che nel frattempo era andato a perdersi da qualche parte in casa sua, a gironzolare per lo studio, e la casa, in totale autonomia. L’ambiente era un tale mare magnum che sia io, sia lei, rimanemmo sbalorditi e per qualche minuto ci limitammo a girare, osservare, ammirare, accompagnati dalla silenziosa presenza di Cappuccino.

Dall’ingresso, curiosamente illuminato di vivido arancione, intravidi il pittore nel suo retrobottega, armeggiare fra disegni, pastelli, acquerelli, a tentare di mettere ordine in più di sessanta anni di attività, di arte.

Ma come e perché si trovava lì, quell’uomo panciuto, con pochi capelli, eppure con uno sguardo profondo ed impostato, dagli occhi chiari come solo i figli d’Albione li possono avere, pallidi ma non germanicamente freddi? Da lontano, da dietro, mi ricordava sia zio Salvatore, fratello di mio nonno ormai defunto da anni, figura quasi mitologica, goliardica, un personaggio di Plauto, sia John il Sordo, mio amico da poco passato a miglior vita. Stessi occhi, stesso sguardo. Un atteggiamento da finto burbero, uno scudo protettivo quintessenzialmente britannico, la cui arma principale è l’occhio indagatore che, curiosamente, mi è stato contestato a più riprese da professori e donne.

Non potei far a meno di fare quello che stavo per fare:

-“We can switch to English, if you like”.

Si girò, di scatto, stupito, come a chiedersi con lo sguardo chi avesse parlato, in inglese, con accento non lontano dal suo, quando davanti aveva due italiani. Si riprese immediatamente, senza perdere l’aplomb da cliché che lo caratterizza:

-“Yeah, sure. Of course”, rispose, accennando un mezzo sorriso. Un sorriso di un inglese è, lo dico senza timore di sbagliare, un raggio di luce che proviene da Dio in persona: una cosa rara.

Tuttavia, un inglese che abita da sessant’anni in Italia, che parla un italiano perfetto, pur mantenendo la gradevolissima inflessione, è ancora un inglese o cos’è?

Leggendo online, un po’ per prepararmi all’incontro personalmente, nonostante conoscessi già abbastanza bene la sua arte e fossi già in possesso di un suo acquerello, si trova l’impossibile su di lui. Foto in bombetta, con un altro cappello elegante, che è appunto appeso alla porta d’ingresso dello studio, una biografia creata ad arte per creare una mitologia intorno al personaggio; un ragazzo che era andato via di casa presto, prima dei vent’anni e che in Italia, a Venezia, aveva trovato un po’ la sua seconda natura, si era andato a scegliere le radici, si era iscritto all’Accademia delle Belle Arti, sottostato di malavoglia alla sua ferrea disciplina, alle regole imposte di canoni artistici scelti da chissà chi e poi aveva cominciato, pian piano a farsi un nome, a dipingere, in larga prevalenza, quelle che erano le sue ossessioni: Venezia e le donne. Cose belle , insomma. E si era lasciato inghiottire da quella sensazione da Grand Tour che ancora pervade molti europei del nord, in realtà soprattutto scandinavi e tedeschi, spesso artisti, che mandano avanti - non so fino a che punto fortunatamente - un’idea e un’immagine d’Italia che è assolutamente morta da decenni, se non secoli, facendo le fortune dell’industria del turismo, perpetuando la leggenda. La stessa Venezia cade vittima quotidianamente di questi luoghi comuni di romanticismo e decadenza, che probabilmente sto alimentando anch’io con queste pagine che, meno male, non raggiungeranno nemmeno i venticinque lettori di manzoniana memoria.

Però, la sensazione da Grand Tour, il viaggio mentale in Italia, è destinato a sparire se non poggiato su solide basi o meglio - non resisto - fondamenta. La ricerca deve essere più profonda e il pittore, infatti, era partito più forse alla ricerca di se stesso che di monumenti, templi, tombe antiche ed architettura. Aveva finito per trovare se stesso sul canale della Giudecca e aveva fondato il suo ashram artistico in una antica casa piena di vetrate e, nel suo studio, di luce. Era riuscito a diventare, dopo aver ricercato la verità in altri, verità per se stesso, punto di approdo per altri, come me e lei quella mattina. Ed i suoi modi di esprimersi erano molteplici: dall’olio all’acquerello, dal pastello all’incisione, dalla voce sommessa ai silenzi. Aspirava a diventare il Pittore di Venezia un po’ come, ormai un secolo fa, lo era stato Italico Brass, malato delle sue stesse patologie, frequentatore dei medesimi luoghi, anch’egli un veneziano d’adozione. C’era riuscito. Ma c’era riuscito mescolando, in modo letale anche se efficace in termini artistici, la più classica malinconoia (no, non è un errore di battitura) britannica, quasi vittoriana oserei dire, all’equivalente veneziana. Nonostante l’età, nonostante una vita in esilio, l’occhio del pittore inglese è rimasto sempre vivido, curioso, aperto alle novità, quasi quello di un bambino, alla ricerca di chissà cosa, chissà dove. Dall’atrio della casa, immerso nel buio e nell’arancione emanato dal candelabro, lo scorgo nel retrobottega, intento anche qui a cercare, ma stavolta pastelli, disegni, aprendo cassetti innumerevoli, che custodiscono tanta arte e vita quanto polvere.

Si rivolse a me in inglese, diretto, chiedendomi se fossi londinese o roba del genere; gli raccontai la storia che devo raccontare a tutti per giustificare il mio accento inglese. Ebbi però in quel momento, per la prima volta da quando avevamo messo piede in quella casa, avuto l’opportunità di osservarlo da vicino, guardarlo negli occhi. Aveva ancora lo sguardo del giovane uomo beffardo, audace, apparentemente sicuro di se e sprezzante del futuro, sguardo che aveva in una foto buttata in un angolo dimenticato dello studio, immagine chiaramente ironica e scattata in chissà quale circostanza, nella quale era vestito da Napoleone. Eppure era ingabbiato nel corpo di un uomo panciuto, calvo, vecchieggiante che se anche qualche dolore interno lo doveva avere - e lo aveva - lo mascherava bene con quello che qui bolleremmo con un prettamente cattolico di timor di Dio ma che invece - paese che vai, usanze che trovi - altro non era che l’equivalente dignitoso silenzio dietro il quale si trincerano i britannici nel momento del dolore, del dispiacere, una voglia di non dar fastidio o essere un peso per la famiglia o la comunità. Il pittore inglese indossava un camice da lavoro sporco di pittura, ancora fresca sia su di sé, sia sulla tela montata dinanzi alla enorme vetrata dello studio, che lasciava intravedere la fondamenta sottostante, quella di fronte ed il canale della Giudecca in mezzo.

Tagliando i già brevi convenevoli, senza tuttavia risultare inopportuno, si avviò nel retrobottega, preceduto da Cappuccino, dove ci avrebbe mostrato una infinità della sua arte, aperto pagine della sua vita e dove avremmo scelto qualcosa che sarebbe poi diventato nostro per sempre: “Prego, seguitemi”.

E per due ore vivemmo sospesi in una dimensione atemporale, tutti e quattro, Cappuccino compreso.

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