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Baliaggio Aglianico del Vulture 2013 - Cantina di Venosa (PZ).

  • Immagine del redattore: G F
    G F
  • 25 feb
  • Tempo di lettura: 2 min

Spesso e volentieri, anche una bottiglia di vino può raccontare una storia. E questa bottiglia anche un po’ datata, forse un filo oltre il suo ottimale, racconta la storia della mia scoperta della Lucania e delle sue vigne. Anni fa, per giri stranissimi della vita, mi sono ritrovato a lavorare una volta a settimana in provincia di Potenza. L’arrivo dall’autostrada è, in tutte le stagioni, abbastanza scenografico: le verdi colline dell’Irpinia, un saliscendi quasi infinito, puntellato qua e là da foreste di pale eoliche, cadono quasi a picco all’arrivo a Canosa, punto dove Irpinia, Puglia e Lucania si incontrano. E da lì, direzione sud-est, è una distesa sconfinata, una pampa nostrana che d’inverno è buia come un cattivo pensiero, ma che con il passare delle stagioni diventa prima di un verde rigoglioso e poi di un colore oro prima brillante, poi sempre più carico ed infine spento. In alto, nuvole, sempre nuvole, su chilometri e chilometri di lungo rettilineo, fra buche ed animali vaganti. C’è davvero bisogno di andare nel Far West per viaggiare da soli nel deserto? Sullo sfondo, prima lontano e poi sempre meno, unica mia compagnia è il Vulture, antico vulcano ormai addormentato, che ha creato tutto ciò che ho appena descritto e lasciato in eredità un suolo minerale, ricco, estremamente fertile e grande amico dell’aglianico, che nella denominazione locale è appunto ‘del Vulture’.

Questa bottiglia di aglianico ‘Baliaggio’ la comprai in un semivuoto supermercato di Melfi e, anche se non è chiaramente la migliore espressione del terroir Vulture, è la conferma di quello che penso da tempo: il vino è uno dei pochi, se non l’unico, prodotto tipico locale rimasto. Perché questo sorso la dice lunga sulla provenienza e sul carattere del popolo che lo ha lavorato. L’aglianico del Vulture tende per disciplinare a stare in legno maggiormente rispetto ad altre declinazioni dell’aglianico, sia irpino che, soprattutto, sannita e questo passare del tempo aiuta a smussare la durezza e la nervosità in bocca di un vitigno che, altrimenti, rischia di restare aspro e basta. Si intuisce, dopo un po’ di aerazione, specialmente dopo più di 10 anni in bottiglia, il carattere fiero, oserei dire vulcanico, seppur adeguatamente levigato. E si percepiscono, oltre ai classici frutti rossi ben maturi, anche un po’ di note erbacee frutto della lunga (e buona, direi) conservazione. Ma soprattutto, sa di uva e di genuinità. La cantina di provenienza, la cantina di Venosa, è una grande cooperativa locale che conta più di 350 conferitori e si sviluppa su più comuni comprendenti, oltre Venosa, le vicine Ginestra e Ripacandida - non posso passare oltre la toponomastica quasi tolkeniana di questi posti - e che lavora prevalentemente, ma non solo, l’’aglianico.

L’annata 2021 è stata premiata da Gambero Rosso con il Premio Nazionale per il Miglior Vino sotto i 10 Euro. Mica male.



Voto verdeacido: 80/100.


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