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Del vino e del tempo

  • Immagine del redattore: G F
    G F
  • 31 mar
  • Tempo di lettura: 5 min

L’attaccamento quasi feticistico al vino, inteso come mero bene di consumo e sempre più di lusso, si riscontra un po’ ovunque, su riviste di settore ed online ed è una cosa che mi mette ansia, poiché il mio approccio al vino è più di tipo emotivo, goliardico-godereccio-antani che tecnico-professionale, anche se non meno ossessivo quando si parla di collezionare bottiglie. Quindi quando sento parlare di ‘finestre di fruizione’ di uno specifico vino, inteso come periodo ottimale di bevibilità, premettendo che ci sono degli effettivi criteri logici di compilazione di queste ‘finestre’, la mia reazione oscilla fra il sorriso amaro ed il palese disgusto. In primis perché aborro il termine ‘fruizione’, che inevitabilmente mi fa paragonare la bottiglia di vino, un prodotto vivente, palpitante, ad un ‘evento’, una ‘esperienza’ o un qualsiasi termine woke alternativo che si riferisce ad un qualcosa del quale si può fruire, anche e soprattutto passivamente, nella modalità ebete e correttissimamente conformista che tanto va di moda oggi. Abolirei il termine ‘fruizione’ così come ‘resilienza’: termini desueti della nostra bella lingua italiana, che purtroppo perdono di significato una volta pesantemente abusati. E non devo essere il solo a pensarla così: già molti anni fa il geniale Maccio Capatonda, metteva in bocca, in senso dispregiativo, il termine ‘fruizione’ ad un sontuoso Rupert Sciamenna ed alla sua inconfondibile r moscia.

La verità è che le finestre di fruizione potranno anche esistere, ma del vino non si fruisce, il vino si beve e basta - lo si beve anche liturgicamente. Pochi altri usi del vino sono consentiti. Per certi versi, nonostante sia un amante del brasato - lo preparo quando ne ho l’occasione - e adori il concetto della sua preparazione, la bottiglia di Barolo la preferirei sempre nello stomaco piuttosto che come liquido di macerazione e cottura di carni, per quanto pregiate.

Dico tutto questo perché al momento, non so in futuro, preferisco rapportarmi al vino così come il protagonista de L’ombra del vento del compianto Carlos Ruiz Zafon, si rapportava ai libri: entrato in libreria, era il libro a scegliere di farsi leggere da lui e non viceversa. Basta un dettaglio: una copertina, un colore, una tipologia di carattere di stampa ed il libro viene comprato al posto di quello che inizialmente si cercava. Oltre che per i libri, quando ho l’opportunità di entrare in libreria, così è per i vini, quando arriva il momento in cantina di scegliere la bottiglia giusta da bere. E fra le 500 bottiglie in cantina, a volte può essere un bel problema capire quale sacrificare sull’enoico altare. Quindi mi lascio guidare dal sentimento: anche in negativo. Ci sono alcune bottiglie che tendo, per qualche strano motivo a preservare. Probabilmente perché ricordano momenti felici, belle sensazioni o, peggio, perché sono uniche bottiglie non facilmente reperibili. Qualche esempio: In Tinu, un’Isola dei Nuraghi comprato in una enoteca di Alghero anni fa, una sera afosa di agosto nella quale Simona era vestita di bianco ed infinitamente più bella di quanto già non sia e Ivana dormiva stanca con la testolina sul mio piede; Sottol’aia, un Chianti classico bevuto una sera in una locanda in provincia di Siena, probabilmente il miglior Chianti che abbia bevuto in vita mia, schietto e più vivo dei Brunelli bevuti quel giorno (l’azienda, La Lama, ha cominciato da poco a vendere online e quindi forse il momento del sacrificio è prossimo; Les Secrets des Terres, stratosferico Chateauneuf-du-Pape rosso, una delle prime bottiglie provate e comprate appena arrivati alle pendici del monte Ventoso, di petrarchiana memoria; vecchie bottiglie di Mâcon, di vino della Loira comprate da mio padre in un viaggio che facemmo ormai quasi 30 anni fa…potrei andare avanti per righe e righe, a raccontare delle bottiglie che, 99 volte su 100, rimangono al loro posto quando scendo in cantina a scegliere. Generalmente, parliamo di bottiglie sempre un po’ âgée. Capitano però momenti nei quali, siccome il vino lo bevo, non ne fruisco, che ricerco qualcosa in più rispetto all’ innegabile brio alcolico, ai sentori primari, secondari. A volte ricerco l’effetto del tempo nelle cose. E questo è un concetto che mi ha insegnato e oserei dire, iniettato, Roberto Di Meo, proprietario/enologo dell’omonima azienda in Salza Irpina, alle porte di Avellino. Lunghi affinamenti, in legno, in bottiglia, su vini bianchi. Osai sfidarlo in casa sua, un giovedì di tanti anni fa, dicendogli che il Greco di Tufo lo adoravo, ma mi faceva venire il mal di testa. Prese una bottiglia del suo Vittorio, Greco in purezza annata 2003, messo in commercio a 15 anni dalla vendemmia. Pura perfezione stilistica, pulizia e frutto pienamente conservato, arrotondato dal legno. Una ventata d’aria fresca, transalpina direi, nelle stantie valli irpine, un po’ ferme nei loro rigidi schemi e mentalità. Per me fu un’epifania. È stato da quel momento che ho cominciato ad applicare, con le dovute proporzioni, gli stessi concetti ai miei nocini, aggiungendo gli ingredienti tempo e pazienza.

Però, il buon Roberto, sa quello che fa ed i suoi sono rischi calcolati, traccia un bel binario e ci fa camminare le sue bellissime creature. Diversa cosa è lasciare, per certi versi abbandonare, una bottiglia prodotta nel millennio precedente e sperare, anche in ottimali condizioni di conservazione, che da dentro esca fuori qualcosa di bevibile.

Ed è così che in rapida successione, mi è capitato di aprire un Côtes-du-Rhône del Domaine La Soumade, del 1995 e una più nostrana Biancolella Casa d’Ambra Frassitelli, del 1999; entrambi con una finestra di fruizione bella che chiusa da un paio di decenni. Il primo comprato a quattro lire, come scommessa, tramite un’asta vinta su Catawiki ed alla quale credo di aver partecipato solo io, la seconda una bottiglia comprata ed abbandonata da mio padre in cantina. Consapevole del rischio - entrambe le occasioni erano pranzi domenicali - mi munisco di bottiglie di riserva da stappare in caso di fallimento. La Soumade, azienda ancora oggi esistente, di piccole dimensioni, presso Orange in Valchiusa (Francia), è fuori dall'aerale di Chateauneuf-du-Pape, ma produce vini, con denominazioni più sfortunate in termini economici e di diffusione, ma non di qualità meno buona, tipo Gigondas e Rasteau. La bottiglia in mio possesso rappresentava, ancora oggi è cosi, il livello base della casa di produzione. Eppure: il miglior côtes-du-rhône mai provato, uno stile alcolico e spigoloso, adatto a scopi ricreativi, ottimo accompagnamento alle carni, non dissimile in asprezza dal nostro aglianico (in genere si parla di blend grenache-syrah-mourvèdre), diventato dopo 30 anni un tenero ed elegante cerbiatto liquido, ancora potente, ma setoso, aggraziato, semplicemente perfetto, 25 anni dopo la chiusura della sua molto teorica finestra di bevibilità. Discorso diverso per la Biancolella: essere un bianco non ha aiutato, un bianco ischitano d'altronde, già di base più delicato. Il colore in origine tenue, ha lasciato spazio ad una tonalità ambra, a sentori di mandorla e frutta secca. Un quasi passito, sicuramente passato, non più accostabile ad un'orata già in forno. Come passito/passato, è stato bevuto alla memoria di papà, che non ha avuto lo spunto di goderselo quando era tempo. E, forse, abbiamo imparato la

lezione: il vino si beve purtroppo solo da vivi; c'è poco tempo.


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