Calle de l’Ogio.
- G F
- 16 ott
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Una volta scelto il quadro, ci si doveva occupare di questioni molto più terrene: pagarlo e cercare di spedirlo nel modo più sicuro possibile. Non essendo in atelier, di queste faccende ce ne dovevamo occupare noi, in modo abbastanza analogico. Mentre lei ed il pittore, riscopertosi esperto magazziniere ed imballatore, cercavano di creare un soddisfacente guscio che consentisse al quadro di arrivare a casa nostra senza danni, io mi avviai verso le scale, preceduto da Cappuccino, alla ricerca di un ufficio postale e di un bancomat che facessero appunto al caso nostro.
Nel momento in cui aprii il vecchio portone - ancora sentivo i pesanti passi di Cappuccino che ritornava al primo piano - fui accolto, con mia somma sorpresa, da caldissimi raggi di sole che finalmente perforavano le nuvole, pronti a vincere la meteorologica battaglia giornaliera. L'odore di umido dell'atrio di casa si sposava in terribile matrimonio con il salmastro dell'acqua del canale e delle alghe, in parte tendenti al marciume, che venivano battute sulla pietra della fondamenta, un po' come altrove e più poeticamente, qualcuno batte i polpi sugli scogli.
Mi rivolsi istintivamente verso destra e subito mi apparve, finalmente chiara, l'immagine di un quadro che il pittore aveva dovuto dipingere letteralmente sull'uscio di casa: la fermata del vaporetto, l'acqua, il cielo e tanta gente del posto che va e viene.
Ecco, ricordo chiaramente ciò che pensai in quel momento: esistono ancora delle sacche di Venezia autentica, originale, non turistica e una di queste è sicuramente - in parte - la Giudecca, forse qualche scorcio di Castello - scorcio che vive ancora negli occhi e nei ricordi dell'infermiera che a lavoro ancora ricorda i giorni d'infanzia passati lì, grazie al padre militare e che ancora dopo decenni incolpa il padre, ora defunto, di aver un giorno fatalmente portato la famiglia lontano da lì.
Chiunque, intorno a me, parla in quella lingua a un tempo musicale e ruvida, che un tempo animava i teatri cittadini grazie a Goldoni che le diede dignità, la elevò a lingua teatrale, a mezzo di potente ed efficace comunicazione, facendo intelligentemente la propria fortuna. E nella variante cittadina della lingua veneta parla la signora che al banco del pesce osserva con cura la merce freschissima, appena arrivata, così come i ragazzi che servono ai tavoli da Majer, la gente che s'incontra per caso passeggiando, i ragazzi che da una casa nel canale escono festanti su un motoscafo, a fare giornata fuori.
Questo è per me - questo e non altro - è la resistenza.
Resiste la lingua e resistono i palazzi. Tutti gli edifici che affacciano sulle fondamenta di Santa Eufemia e San Biagio sono, a dir poco, secolari: molti pressoché completamente dilapidati dal tempo ai piani superiori al pianterreno, altri semplicemente senza manutenzione; eppure, sono tutti in piedi, nonostante il tempo, nonostante l'erosione dell'acqua e del vento. Alla base di questi palazzi non si trova il ciarpame turistico che in città è disseminato in ogni dove, come se fosse peste secentesca. Qui c'è vita vera, vere attività commerciali come in ogni piccolo quartiere di città: il tabacchi, le poste, il pescivendolo, un negozio di frutta e verdura, qualche bar, osterie e negozi di vestiti. Nessuna traccia di scadenti maschere sbiadite dal sole, nessuna traccia di vecchie maglie - non originali, ovvio - di Ibrahimović, che nemmeno gioca più a calcio. Un tempo, almeno, l'orgoglio voleva che le maglie fossero quelle del Venezia, per il quale ho sempre avuto un'ossessione, probabilmente per motivi cromatici: durante la gita di terza media che spintaneamente orientai verso la meta lagunare, comprai una maglia del Venezia del mitico Pippo Maniero, che ancora conservo da qualche parte.
Uscito dal portone, dicevo, cominciai a camminare verso destra, verso il Redentore. Anche se avevo cercato con precisione sulle mappe del mio cellulare, in realtà sapevo esattamente dove andare. Eppure era tutto così strano quella mattina, così onirico - anche letteralmente, la levataccia era stata pesante - che sembrava quasi che non riuscissi ad accettare che stavo effettivamente camminando lì, su strade a me già conosciute. Un po' come quando i computer vanno in conflitto con se stessi - almeno un tempo era così - e si piantano con quella adorabile schermata blu di errore.
Fu proprio in quel momento di realizzazione di quella sensazione che mi accorsi di non essere solo a camminare: vidi me stesso, alla mia destra, camminare svelto con lo zainetto addosso, concentrato e con le cuffiette nelle orecchie.
All'altezza di Calle de l'Ogio - una delle tante calli dell'olio di Venezia, nate prima che il mondo venisse assalito dalla necessità di toponomastiche univoche e fantasiose - vidi me stesso, sbiadito, una giovane versione di me, quasi evanescente, girare ed avviarsi verso quella calle lunga, stretta e buia, anche in pieno giorno, in qualsiasi stagione e mi fermai lì ad osservare me stesso, finchè non vidi più nessuno, finchè non ebbi la sensazione che un portale di ferro si fosse chiuso dietro le spalle di quell'ombra, ormai da me lontana.
Continuando a camminare sulla fondamenta, quasi arrivato alle poste, lo spettacolo che si aprì davanti ai miei occhi era di quelli che non si presentano tutti i giorni: il maltempo stava rapidamente prendendo la forma di una bellissima giornata e sul bacino la foschia si diradava, tendeva a salire, accarezzando la Salute, il Campanile di San Marco, lasciando che il sole facesse emergere i riflessi dorati dei palazzi, delle chiese, dei campanili.
Mi fu chiaro solo in quel preciso momento, quel giorno e non altri, ciò che aveva fatto girare la testa e perdere la lucidità a John Ruskin, a Byron; o che aveva solleticato la già estremamente esaltata sensibilità estetica di D'Annunzio, assecondato lo spirito malinconico e turbolento di Ezra Pound.
Mi fu chiaro perchè ancora oggi passano le lacrime degli occhi dell'infermiera che ricorda della sua infanzia a Venezia - la sua scuola accanto al vecchio ospedale, la precisa fermata del vaporetto accanto all'Arsenale - come di una infanzia passata in un parco giochi.
Ora, non è mia intenzione, men che meno su queste pagine, fare confronti fra straordinari luoghi del mondo che mi hanno dato tanto e tanto mi ispirano, ma sono da sempre convinto che se Partenope sia andata a sbattere precisamene sulle coste del golfo di Napoli, lo abbia fatto con cognizione di causa: la bellezza naturale, e non solo, di quel posto è innegabile, un fatto palese.
Venezia no: Venezia è un fiore di loto che nasce dal fango, è il frutto di un'idea di sopravvivenza forzata di gente in fuga da lotte intestine, che palo su palo, pietra su pietra e, soprattutto, cicatrice su cicatrice, ha deciso di creare un luogo di straordinaria bellezza in un ambiente fondamentalmente inospitale, malsano; in questa città ogni luogo, ogni edificio è testimonianza di una data, di una persona, di un qualcosa ed è questo secondo me il modo più poetico per solidificare le memorie in un tentativo di eternità.

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