David Bowie, Milena Vukotic e Cabernet
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- 4 nov
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Rientrato dalle commissioni alle poste, bussai ed il portone si riaprii con il medesimo clac metallico con il quale si era aperto la prima volta. Anche a questo giro, l’onnipresente Cappuccino, attirato dal campanello, era sceso ad accogliermi e ad aprirmi la strada. I lavori per la chiusura del pacco che avremmo dovuto spedire - il quadro ormai calato nelle sue viscere - erano quasi al termine. Non osai interrompere lei ed il pittore, che sembravano impegnati in una danza coordinata, quasi rituale, che prevedeva ampi giri di scotch marrone da imballaggio e tanti sospiri. Non potei fare a meno di rubare una foto di quel momento. Continuai a girare in tondo nello studio, ritornai ad ammirare le litografie nella camera da letto degli ospiti, registrando l’odore di legno e pittura che sovrastava nell’ambiente, come a voler carpire tutta una serie di dettagli che, in effetti, mi sto affannando a riportare in queste righe.
Presto il quadro fu pronto e di portarlo alle poste, se ne incaricò lei.
Il pittore sembrava pregustare il momento in cui, finalmente, io e lui saremmo rimasti soli.
La prima cosa che fece, una volta che lei fu scesa e Cappuccino ebbe compiuto il solito rito di accompagnamento, fu cambiare lingua: sebbene gli avessi fatto presente di poter parlare in inglese con me, per correttezza, aveva continuato a parlare in italiano per essere sicuro di essere compreso da tutti, anche se sarebbe stato lo stesso anche nella sua lingua. La nostra lingua: sua e mia.
Mi riportò nello studio e, mostrandomi il suo nudo ancora incompleto, nello stesso tempo abbassò il volume della radio, che grazie ad un vecchio MacBook ancora trasmetteva il servizio internazionale della BBC e mi offrì da bere, ricordandomi il secondo motivo per cui ero a Venezia in quel giorno e mezzo. Accettai senza riserve e ci dirigemmo verso il tavolo colmo di bottiglie, dove mi chiesi da dove avremmo cominciato. Mi mostrò una bottiglia di Cabernet nostrano, molto molto locale, senza etichetta, prodotto in modalità molto casalinga, comprato sfuso in un luogo del cuore sia per il sottoscritto che, appunto, per il pittore: il cosiddetto Bottegon, formalmente noto come la Cantina del Vino Schiavi, un bacaro - cos’è un bacaro verrà ampiamente trattato in seguito - dove viene servito vino e cibo e che si trova a Dorsoduro, dall’altro lato del canale della Giudecca. Adoro quel posto, al punto tale da avere acquistato due anni fa uno dei vari acquerelli che il pittore ha dedicato al bacaro, che è un luogo anche e soprattutto del suo cuore. Senza sapere che io già fossi al corrente di dove fosse situato questo locale, nel quale ho abbondantemente mangiato e bevuto a più riprese negli anni, me lo indicò sommariamente dalla finestra, per poi prendere la bottiglia dal collo, versandomi un calice abbondante di questo rosso sapido, contadino, eccezionalmente rotondo nonostante una lavorazione minima. Quando gli dissi che che possedevo appunto quell’acquerello - motivo di una precedente sortita a Venezia ed inizio della scoperta dell’arte del pittore - lui ne rimase sorpreso, quasi imbarazzato e mi rispose dicendomi quello che probabilmente avrei risposto anche io nei suoi panni : “Credevo che quel posto piacesse solo a me”.
Mentre assaporavamo entrambi quella bontà di vino, rusticamente elegante come solo roba che viene dai Colli Berici può essere x cominciai a fissare un olio enorme, imponente, raffigurante una donna dal viso estremamente familiare, talmente familiare da non ricordare dove lo avessi visto prima.
Il pittore, consapevolmente, cominciò prima a sorridere, poi a ridere sempre più apertamente; vuotò il suo calice e, riprendendo la bottiglia, fece segno a me di fare lo stesso per riempirmelo nuovamente: non osai contraddirlo.
Sempre rivolgendosi a me in inglese, mi disse:
-“Non hai mai visto i film di Fantozzi?”.
Milena Vukotic, storica moglie del ragionier Fantozzi nella serie dei famosi film, attrice vecchio stampo, prestata sia a ruoli tragici sia faceti, resa immortale sulla tela, da lei stessa commissionata e - parole del pittore - mai ritirata, era semplicemente splendida, elegantissima, luminosa. Bloccata in un istante di relativa gioia, anni prima nello studio del pittore. Incuriosito da questo incontro fortuito - la Vukotic era stata lì sorridente e troneggiante per tutto il tempo, non riconosciuta - il pittore tirò fuori un vecchio catalogo, poi regalatoci con tanto di dedica, sul quale andò a cercare tutti i quadri, schizzi, bozzetti di personaggi famosi. Ci sedemmo alla scrivania del retrobottega: era un affare lungo. Altro giro di vino per aiutare i ragionamenti ed i racconti sui Bei Tempi Andati. “Sai - mi disse - David Bowie era seduto proprio dove sei tu ora, quando gli feci questo ritratto.”
Ci mancò poco che mi sentissi venire meno. Io che ho pianto come se fosse venuto meno un parente, quando il Duca Bianco ci ha lasciati.
E mi spiegò che Bowie era incazzato come una iena, quel giorno; che la gita allo studio del pittore gli era stata organizzata in sostituzione di una proiezione alla quale avrebbe dovuto assistere al Festival del Cinema e che era stata posticipata al giorno dopo, obbligandolo ad allungare la permanenza a Venezia. Il suo entourage si era preoccupato di tenerlo impegnato per la giornata, ma non essendoci il tempo per un quadro, si optò per qualcosa di più semplice ed immediato. In quattro tratti di matita, il pittore era riuscito a caratterizzare a perfezione quello che doveva essere Bowie nella sua quotidianità: pensieroso, attraversato dalle emozioni, uno specchio che restituiva di volta in volta una maschera diversa, trincerandosi dietro a quegli occhi enigmatici, quasi da alieno. Apprezzai in quel momento la semplicità della grandezza che riflette la grandezza. Il racconto doveva avermi visibilmente fatto partire ragionamenti e pensieri che il pittore, con l’umiltà delle persone che lasciano il segno sulla terra, portò altrove con grazia. Dal vecchio catalogo uscì fuori la partecipazione delle sue nozze, a Venezia, anni e anni prima, festeggiata con un ricevimento all’ambasciata britannica, alla presenza di membri della famiglia reale, con tutti gli onori del caso. Lasciò intendere che, molti anni prima ed in incognito, un membro molto importante della stessa famiglia reale britannica - quello che possiamo ritenere il più importante degli ultimi cento anni - gli aveva fatto breve visita e per quanto rapidissima, anche in quella circostanza era stato prodotto un ritratto. Ritornammo nello studio, dove immaginai la Regina camminare nel disordine, tra cento sedie, sgabelli, divani, poltrone e cuscini, sedersi in posa per l’uomo che mi stava davanti e che mi versava un altro bicchiere di Cabernet. Non erano nemmeno le dodici. Aiutato dal vino, cominciò a raccontarmi con dovizia di particolari di una grandissima quantità di modelle - e modelli - che avevano posato per lo più nudi per lui. Di molti di loro ricordava con lucidità il nome e la storia alle spalle, il motivo che li portava lì a fare i modelli - spesso studenti dell’Accademia in cerca di fortuna e di pocket money - decantandomene le qualità fisiche, soprattutto posteriori, ma facendolo prima dal punto di vista dell’artista e, solo dopo, dell’uomo. Senza mai toccare: ci tenne a specificare. Quando parlava di donne, e di posteriori di donna, emergeva evidente il genuino apprezzamento per il genere femminile, le sue qualità, la dirompente fisicità. Il suo amore per i kimono femminili - molti dei quali in suo possesso - e per le donne vestite alla giapponese. Mi parlò, seppur rapidamente, della moglie, di quanto fosse spledida in gioventù, oggetto di molte sue opere insieme alla figlia. E mi strappò un sorriso quando mi confessò: “Mi innamorai prima del suo culo e poi di lei”. Rividi un po’ me stesso qualche anno addietro; fui costretto a smorzare una risata che sarebbe stata infinitamente più fragorosa. Era ormai, però, una conversazione tra amici, seduti uno di fronte all’altro ed apprezzai molto quella giocosa, per nulla volgare divagazione culofila - termine coniato dal regista Brass, al quale abbiamo già fatto più d’un velato rimando nelle pagine precedenti, per il suo pamphlet “Elogio del culo”, un dialogo socratico che tra il serio ed il faceto affronta l’argomento del posteriore, libro

ormai introvabile. Apprezzai quel momento perché io e lui, davanti ad un bicchiere, due, tre bicchieri di vino, eravamo semplicemente due ragazzi, sullo stesso piano, che scambiavano una chiacchiera spensierata. Difficilmente dimenticherò quel preciso momento. Ad un certo punto, accarezzando Cappuccino, cominciammo a parlare di cani e mi fu raccontata la storia non solo appunto del suo bellissimo cane, ma anche di altri, ora non più in vita, che si trovano disseminati nelle sue opere, nascosti in bella vista. Mentre gli stavo raccontando di Ivana, così come un padre farebbe di un figlio - cosa che aveva appena finito di fare lui d’altronde - lei bussò alla porta e risalì. Il momento del commiato si stava avvicinando ma prima, ovviamente, il pittore le offrì un bicchiere mentre, senza chiedere, ne versò un altro a noi due.
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