Il commiato.
- G F
- 21 nov
- Tempo di lettura: 3 min
Il quadro era oramai stato spedito verso la sua destinazione definitiva e quella strana combriccola che quella mattina si era riunita in casa del pittore, appunto per acquistare il quadro, non aveva più motivo per rimanere ancora in compagnia. D’altronde, s’era fatta l’ora dell’aperitivo e i due amici che ci aspettavano da qualche parte, dall’altra sponda del canale della Giudecca, cominciarono a scalpitare telefonicamente, chiedendoci dove ci fossimo cacciati. Il pittore fu gentile abbastanza da regalarci il suo catalogo, quello che aveva utilizzato per indicare le sue opere più famose, scrivendo una dedica personalizzata sia a me che a lei, sul retro della copertina. Avendo citato la nostra Ivana, disegnò anche un piccolo cagnolino, in omaggio a lei. La cosa più curiosa di quella mattinata, ripensandoci bene e a freddo, è che mentre da un lato sia io sia lei sembravamo non voler abbandonare quella casa - una sorta di bolla sospesa nel tempo e nello spazio, un luogo surreale, una fuga autorizzata dalla realtà - dall’altro anche il pittore sembrava restio a volerci far andare. Ci scambiammo i contatti, scattammo delle foto ricordo. Mentre si copriva con un lungo cappotto nero ed un cappello dalla foggia particolarmente antiquata, molto appropriato al personaggio, ci annunciò che, con il dovuto preavviso, se gli avessimo fatto l’onore di ritornare da lui, lui ci avrebbe fatto l’onore di deliziarci con la sua cucina. Sono convinto che sia io, sia lei, in quel momento pensammo alle diavolerie che sarebbe stato capace di tirar fuori un pittore inglese ai fornelli. Non ebbi in quel momento, inoltre, la lucidità di invitarlo a cena quel giorno - un po’ di reverenzialità in eccesso, forse; me ne pentii per tutto il giorno. Ci avviammo verso le scale e diedi un ultimo sguardo commosso all’arredamento. Accarezzai Cappuccino, come se lo conoscessi da sempre e lui rispose, dal canto suo, come se mi conoscesse da sempre e ci guardammo negli occhi quel mezzo secondo in più, come fanno i cagnolini più sensibili. Un’anima pura. Scendemmo le ripide scale tutti e tre insieme - anche il pittore andava a prendere un po’ d’aria - e mentre la porta si richiudeva Cappuccino era ancora lì, sopra le scale, intento a fissarci. Lo scambio finale con il pittore fu frugale, timido. Ci stringemmo la mano forte e guardandoci negli occhi, il pittore, ritornato all’italiano, mi diede un sentito “Arrivederci”. Ci dirigemmo verso la fermata del vaporetto, che in una manciata di minuti ci avrebbe portato dall’altro lato, alle Zattere, dove ci aspettavamo i nostri amici, il bed and breakfast che avevamo prenotato ed il resto di questa avventura.
Osservai da lontano il pittore incedere lentamente tra la gente, una macchia facilmente riconoscibile, all’apparenza bizzarra, uno spirito libero che aveva trovato la sua dimensione lontano da casa, in un luogo che casa era finito per diventarci. Di spalle mi ricordava mio nonno, che aveva un’andatura peculiare e riconoscibile anche da lontano. Si perse pian piano tra la sua gente.
Io e lei, intanto, saliti sul vaporetto, eravamo come in stato di shock, inebetiti. Già Venezia in sé, da sola, è in grado di esaltare gli spiriti, alterare le percezioni - non lo dico io, per carità, basta leggere qualche pagina a caso de Il Fuoco di d’Annunzio, o qualcosa di Brodskij, Pound, senza arrivare a scomodare Casanova o Goldoni. In particolare poi, il tragitto Palanca-Zattere, consente di osservare dal vaporetto la maestosità, l’altissima densità d’arte ed architettura che affolla le due rive e non solo. Chi non c’è mai stato può, in effetti, sentirsi storditi. E noi che eravamo storditi dalla levataccia, che alle 4 di notte eravamo nei nostri letti al sud della nazione ed alle 8.30 facevamo colazione a Venezia, alle 10 conoscevamo un personaggio che mai avremmo pensato, alle 12 e qualcosa ci avviavamo a vivere una giornata e mezzo a Venezia e nelle sue isole…beh, lì abbiamo un po’ realizzato. La cosa che più mi piace dello stare con lei è che siamo capaci di comunicare senza parole, senza dover necessariamente riempire i silenzi. A volte va semplicemente così e non è per noia, ma perché bastano un bacio e una traversata in vaporetto da abbracciati, sperando di non cadere a ogni sussulto.
Attraccammo davanti alla chiesa dei Gesuati, imponente in quella che Vinicio Capossela definirebbe bianchezza. La stanza che avevamo fittato per la notte, l’unica di questo piccolo grande viaggio, era lì vicino. Abbandonammo le nostre poche cose lì, quasi di fretta: i nostri amici stavano scendendo verso Dorsoduro e ci saremmo incontrati, di lì a breve, in Campo Santa Margherita.

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