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La casa del pittore.

  • Immagine del redattore: G F
    G F
  • 9 ott
  • Tempo di lettura: 5 min

Sono incappato, su un giornale, dopo quest’avventura veneziana, in una frase tratta dall’autobiografia di David Hockney che, quasi a voler assolvere il domestico disordine insito nei britannici, specifica in merito alle abitazioni di chi vive d’arte: “La casa di un artista non deve essere elaborata, spesso è meglio che non lo sia affatto”. L’autore dell’articolo, critico d’arte, esteta caustico e conservatore, nonché assiduo frequentatore di pittori ed affini, chiosava che talvolta le case d’artista non devono nemmeno essere molto pulite. Non si può dire che la casa del pittore fosse, in senso stretto, molto pulita. Non è un qualcosa di possibile, in questo caso: l’arte polarizza la vita di chi la crea al punto tale da condizionare anche gli spazi vitali, le scelte d’arredamento, anche solo la possibilità di pulire gli ambienti. Una volta salita la ripida scala che collega la porta d’ingresso al piccolo atrio, al primo piano, illuminato in arancione - di una tonalità che mi riporta a ricordi d’infanzia, in una minuscola cucina, in casa di zii che ora dimorano nell’eternità - ci si trova di fronte ad un lungo corridoio, in fondo al quale s’indovina una porta, oltre la quale si intravedono dei fornelli; sulla sinistra del corridoio, si aprono due porte abbastanza vicine l’una all’altra e che sono l’accesso per lo studio e per il retrobottega, collegati a loro volta da una piccola porta d’intermezzo. Attraverso queste tre porte l’una vicina all’altra, Cappuccino passa silenziosamente, lo sguardo discreto, il passo felpato, come a controllare che tutto proceda per bene, un atteggiamento che ricorda quello della mia piccola Ivana, che si affaccia al balcone come per controllare che l’autofficina sotto casa lavori bene. L’ampio studio è dominato dalle balconate che si affacciano sul canale della Giudecca e che lasciano intravedere tutta Venezia: una foresta di campanili, fra i quali svetta quello di San Marco sulla destra, San Giorgio appena visibile, quello di San Trovaso, l’imponente chiesa dei Gesuati di fronte, marmoreamente pallida, oltre ad una selva, utilizzo il termine uscito dalla bocca del pittore, una selva di finestre, bifore, trifore, affilate e tese verso il cielo plumbeo che, fortunatanente, in seguito avrebbe regalato raggi di sole. Al termine della Fondamenta a sinistra, l’imponente, austero, anseatico Molino Stucky, ora grande albergo, un tempo vanto e fucina di uno dei più grandi industriali del suo tempo, Giovanni Stucky appunto, che ebbe la lungimiranza di regalare alla città non solo lavoro, ma un’opera d’arte, per quanto industriale, che giace enorme sulle rive del canale. Sulla sinistra, in fondo, oltre la desolazione di Sacca Fisola, una propaggine artificiale rubata all’acqua usando detriti e chissà cos’altro - landa di case popolari come quelle che si trovano in ogni periferia - si staglia imponente il complesso industriale di Porto Marghera, quello che un tempo doveva essere il Petrolchimico e che oggi è ancora qualcosa, pienamente in funzione, velenoso animale che giace in un angolo di laguna, con le sue ciminiere, un enorme arco metallico, le sue luci rosse di notte. A modo suo, è un qualcosa che ha un suo fascino, per quanto bizzarro.

A qualche metro dalla balconata, essendo a primo piano, la Fondamenta di San Biagio pullula di vita: pochi turisti, molti abitanti del posto, tanti gatti, qualche cane e soprattutto il sole che tenue si fa spazio nella forte incertezza del cielo e gioca sull’acqua a dare riflessi che finiscono a rimbalzare sulle pareti dello studio, considerata la terribile vicinanza tra la casa e il canale della Giudecca. Tante e tante volte in altre vite ho camminato per questa fondamenta, ma mai come quel giorno ebbi il privilegiato punto di vista dall’alto, che il pittore ha tutti i giorni, da dove forse il bello appare più bello ed il grottesco appare sempre più tale; mai avrei sognato d’avere questo privilegio, concessomi fino a quel momento solo grazie all’arte e ad una precisa tela del pittore, che raffigura tutto ciò. Se potessi dare una definizione alla felicità, direi che è la sensazione che ho provato in quel momento in cui Venezia era lì, tutta, davanti e sotto di me, incorniciata dalle ampie finestre, sotto quel cielo di piombo, rotto a tratti dal sole.

Lo studio del pittore, con un nudo ancora incompleto sul cavalletto, al quale stava lavorando quando abbiamo bussato alla porta, è il riflesso di una vita spesa eternamente in viaggio, sia reale che mentale ed introspettivo. Tavoli e sedie, tutti risalenti ad almeno una cinquantina d’anni fa, giacciono qui e lì, quasi come se lanciati a caso nello spazio, a trovare da soli il loro ordine naturale. Tantissimi richiami alla Cina, quella vera, forse ormai persa, imperiale: una madia intarsiata, un prezioso vaso, un paravento ornato abbelliscono l’angolo di fronte alla porta d’ingresso dello studio, nel quale trionfale troneggia un tavolo colmo di bottiglie di ogni genere, dal vino al whisky e di bicchieri. Divani e giacigli di vario genere si trovano su entrambe le pareti che conducono alla balconata ed è possibile indovinare, negli innumerevoli quadri appesi proprio lì, che altro non sono che alcuni degli sfondi, degli oggetti, dei protagonisti degli stessi quadri e suoi quali una gran quantità di modelli e modelle hanno posato, per divenire immortali sulla tela. Nell'angolo in fondo a destra, accanto alla balconata, ecco un ombrellino cinese che spesso ritorna nella serie dei ritratti fatti in studio. Io e lei camminiamo, su consiglio del pittore stesso, in questo museo privato, dove anche i libri abbondano, in un silenzio colmo di meraviglia, rotto soltanto dalla radio che trasmette il servizio internazionale della BBC. In uno specchio ovale sulla parete, piccolo, antico e riccamente ornato, vedo lei di spalle che ammira il nudo sul cavalletto e questo gioco di specchi - d’altronde ovali e veneziani - mi rimanda a un grande regista appunto veneziano, che nell’uso di questi divertissements è maestro. Ora, nonostante questa gloria sparsa per la stanza, è il retrobottega il vero regno del pittore, dove lui ci attende per mostrarci la sua arte, sia quella più nascosta, rimasta anni nei cassetti, sia quella che egli stesso usa ad ornamento della sua dimora. Trasitando nuovamente accanto all’atrio d’ingresso, dove c’erano appesi la giacca ed il cappello del pittore e sempre illuminato in arancio, mi accorsi da questa nuova visuale di un quadro criptico che non avevo notato inizialmente salendo le scale e che raffigurava una giovane donna davanti ad un pianoforte, in una posa a mezza via tra l’inchino e l’inginocchiamento, che dava la mano ad una figura letteralmente scheletrica, anche se vestita da donna, che sembrava quasi volerla proteggere: un monito? La scelta del posizionamento del quadro non poteva certo essere casuale. Passando attraverso una piccola porta, dallo studio e dalla sua luce, si viene catapultati, in effetti e quasi in linea con il monito del quadro di cui sopra, in un ambiente più buio e cavernoso, probabilmente più intimo, tuttavia né meno né più vissuto dell'altro. Sicuramente più terreno e reale. L'ordinato caos che qui domina, dove a terra, sulle pareti, su un enorme tavolaccio che riempie la stanza, che non è di piccole dimensioni, si trova arte su arte su arte, sembra non essere quello che è - un piacevole labirinto - sia per il pittore, sia per Cappuccino, che con passo lento e sicuro si fa spazio tra noi tre, contento della inaspettata compagnia mattutina. A terra, ovunque nella casa, domina un pavimento di terrazzo alla veneziana, simile a quello che era a casa dei miei nonni paterni e, credo, in una infinità di altre case d’Italia e di qualche anno fa. Dai cassetti in ogni dove, il pittore cominciò a tirar fuori pastelli, disegni, ci indicò tele, pochi olii, una infinità di acquerelli. E cominciò un racconto che durò quasi due ore, ricco di aneddoti, storie, fatti, ricordi che abbiamo portato con noi, uscendo da quella casa, insieme al quadro che poi abbiamo deciso che non dovesse essere più appeso in casa sua, ma nella nostra.

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