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Mirazur ***

  • Immagine del redattore: G F
    G F
  • 14 lug
  • Tempo di lettura: 10 min

Qualche mese fa, al momento della prenotazione al Mirazur, buttai giù qualche riga quassù, un blog anonimo che ha il solo scopo di fissare le mie memorie nel tempo e condividerle con pochi amici. Quel post lo intitolai “La strada verso il Mirazur”, riferendomi alla metaforica via da percorrere per arrivare in quello che è, posso dirlo per esperienza, uno dei più alti templi della gastronomia mondiale. La strada per il Mirazur, quella percorribile e reale, se si viene da Nizza, è il tratto finale di una bella autostrada francese, la A8, che culmina in Italia ed è letteralmente il tratto in cui la Costa Azzurra diventa lentamente Liguria, le colline più dolci, le vette meno aguzze e l’argilla dei calanchi lascia il posto alla roccia viva, ai terrazzamenti, agli strapiombi che accompagnano chi viaggia, sulla vecchia statale Aurelia, almeno fino a La Spezia. Dopo qualche scorrazzata su vie costiere ed interne e giorni di traffico e semafori, opto di godermi il tramonto in auto nei 45 minuti che separano il ristorante, che è a Mentone e dunque sul confine italo-francese e Villeneuve-Loubet, cittadina nella quale abbiamo trovato un alloggio e che è - casualità - luogo natio di Georges Auguste Escoffier, colui dal quale è partita la riorganizzazione del concetto di ristorazione che, con estrema probabilità, è ciò che ci ha messi prima su un aereo e poi su un’auto diretti al Mirazur.

Quel tratto di autostrada, fastidiosamente punteggiato da caselli per il pedaggio, è uno dei più belli che abbia mai percorso, in uno dei posti innegabilmente più pittoreschi al mondo. Fatta eccezione per qualche piccolo dettaglio, quella porzione di riviera francese un po’ irredenta, sembra casa, non sembra un posto straniero. Borghi in collina si avvicendano a borghi marini, la stessa toponomastica è, a discapito della forzata francesizzazione, abbastanza italica; il bellissimo mare di queste zone è, in effetti, lo stesso che bagna Napoli e le alte coste di Sorrento. Le montagne aguzze, verdeggianti, un po’ argillose, mi ricordano della Corsica che era un tempo parte integrante della costa meridionale francese e catalana, insieme alla Sardegna e il sole caldo ancora nel tardo pomeriggio batte su di me e su di lei che, nel giorno del suo compleanno, riposa ad occhi chiusi dopo giorni di autentico tour-de-force; ne approfitto per ascoltare la playlist francofila che ho compilato su Spotify - a lei non piace - e che ho chiamato maccheronicamente Françoiseries, delle franceserie a tributo della buonanima di Françoise Hardy. Una franceseria bella grossa, per rimanere in tema, è il fatto che anche ormai nei pressi di Mentone e quindi dell’Italia, non c’è un cartello che indichi tale prossimità, se non qualche vago riferimento a Sanremo e Genova. Sarò onesto: non mi stupisce. Allo stesso tempo ricordo che una delle prime frasi del libro di Mauro Colagreco, dedicato al Mirazur che è appunto il suo ristorante, è una citazione che fa riferimento ai confini, che sono un qualcosa che esiste “solo nella mente di alcune persone”. E non può essere differente per un argentino, di origini palesemente italiane (abruzzesi), che si è formato professionalmente in Francia e che su un confine ci abita e di questa cosa se ne serve, prendendo il meglio da un lato e dall'altro. Ed è curioso, arrivando, il fatto che per entrare nel parcheggio del Mirazur, un po’ nascosto, sia dovuto entrare a girare il muso dell’auto per una ventina di metri in Italia, per poi rientrare in quello che è l’angolo sud-orientale dell’esagono francese; lo è diventato quando i Savoia decisero opportunamente di sacrificare quel pezzo di Contea di Nizza alla Francia in nome dell’aiuto alla causa dell’unificazione nazionale. Ben informato da tempo, mi sono premurato di prenotare in anticipo quella che sembra essere una parte integrante del percorso mentale e gustativo che si fa al Mirazur, ovvero la visita al giardino-orto che - sorpresa - altro non è che il giardino di casa Colagreco. Piccoli dettagli di una casa normale, di persone normali, emergono: un canestro, un cane, un po’ di disordine qui e lì, oltre a tutta una serie di dettagli che Alessandro, che ci servirà poi per tutta la serata in modo egregio, ci fa notare, ci indica, ci fa staccare, annusare, assaggiare. E così faccio la conoscenza con il limone di Mentone, eccellenza locale meno aspra, più dolce e mangiabile rispetto all’agrume a cui siamo abituati in Penisola Sorrentina e che, ci dice Alessandro - che è nostro coetaneo ed è sanremese - la nonna gli preparava come merenda a fette con olio e sale. E non è un trucco di quelli fatti ad arte. Mentre bevo acqua e limone, semplice e rinfrescante - l’afa è soffocante anche alle 18.40 - rimango da solo in fondo al gruppo e, guardando Mentone che si distende dalla collina a raggiungere il mare, con la chiesa di San Michele appollaiata in alto, penso a mia nonna e al fatto che sono stato fortunato ad averla conosciuta. Facciamo la conoscenza con tanti piccoli fiori a noi più o meno noti, perché ritroveremo quei colori e quei sapori nei piatti poco più tardi. Questo perché siamo capitati nel periodo dei fiori: il Mirazur segue un calendario lunare ed il menù cambia ciclicamente, rendendo protagonisti di quest’ ultimo i fiori, i frutti, le radici o le foglie. Sarebbe irrealistico pensare che l’orto dei Colagreco (o meglio, gli orti, perché ce ne sono vari, anche a distanza dal ristorante) possa soddisfare il fabbisogno di una macchina da guerra imponente come il Mirazur, che conta tra gli 80 e 90 dipendenti; tuttavia però, l’idea di far vedere i protagonisti della serata prima nel loro habitat naturale e poi nel piatto, è semplice e geniale. Ma soprattutto tende a rendere più umano un momento di altissima gastronomia, radicando nella concretezza del tangibile - per quanto possibile - una serata che potrebbe, senza un sapiente controllo, tranquillamente trasformarsi in uno spettacolo di sopraffina tecnica culinaria condito da un esercizio di stile nel servizio, o poco più. È necessario però specificare una cosa, per proteggere queste poche righe. Chi scrive queste parole lo fa prevalentemente nella speranza che, un giorno, un figlio ancora non nato le ritrovi, le legga, ne tragga spunto e, non dovessi esserci io di persona a poter raccontare aneddoti, possa avere qualcosa che gli rimanga di me. Lo dico perché questa sorta di pubblico diario, non è un altare dal quale professare grandi verità, né un palcoscenico sul quale esibire presunte mie conoscenze che possono essere in alcuni casi veramente rudimentali. Non è mio interesse, non è mia volontà. È però, una collezione di impressioni, esperienze e giri vari che qualcosa hanno insegnato e che ruotano prevalentemente intorno ai sensi e al diletto che questi ultimi possono procurare all’animo umano, specialmente quando condivisi con chi si ama. È questo quello che mi ha colpito al Mirazur, ma arriviamoci con calma. Se c’è un qualcosa che posso attribuirmi di positivo è la capacità di adattarmi a tavola, di trovarmi perfettamente a mio agio sia in una oscura taverna, sia alla tavola dei re. Questo perché sul gusto c’è molto da imparare in ogni caso, sia per affinità che per dissonanza, se ne esce sempre arricchiti, in esperienza, preferenze, opinioni. È chiaro però che al contempo accomunare una serata al pub con una cena al Mirazur - o in luoghi similari, che possiamo banalizzare per comodità come “stellati” - è da ingenui. Si tratta di esperienze diverse, che servono scopi prevalentemente diversi, nonostante si tratti - in effetti - di compiere il medesimo atto dell’uscire di casa per andare a nutrirsi in altro luogo. C’è chi allo “stellato” ci va per una questione di status, far vedere di esserci stati e chi magari ci va per curiosità, per capire cosa possa esserci di tanto diverso rispetto ad un ristorante qualsiasi, per capire lo chef di turno cosa ha da dire, da comunicare. Non sempre con risultati eccelsi. Essendo io stesso una persona con necessità di tramandare se stesso, le proprie esperienze e proprie conoscenze - lo noto anche sul lavoro, ad esempio, nella mia ossessione nello scrivere libri di fluoroscopia che verranno letti da una manciata di persone e che non renderanno mai adeguatamente in termini economici - riconoscere in Mauro Colagreco un animo simile, prima in tv, sui libri e poi di persona, mi ha portato a fare un’esperienza da privilegiato, poco ripetibile e sicuramente incisiva sul mio modo di intendere il cibo e non solo. Parliamoci chiaramente: ognuno ha il suo linguaggio per comunicare e spesso e volentieri non è letteralmente semantico, anzi. E quando il linguaggio utilizzato è quello della cucina, si possono raggiungere vette altissime di comunicazione, senza emettere verbo. A tavola al Mirazur, ad esempio, arriva un pane - il primo dei due serviti nel corso della serata - a forma di stella, intagliato in modo da essere facilmente diviso dai commensali, bianchissimo, buonissimo, burrosissimo, profumatissimo. Una ricetta della nonna dello chef riadattata alle circostanze ed adeguatamente imburrata nell’impasto a celebrazione della nazione alla quale Colagreco deve tanto. Inutile dire che si è faticato nel mantenere un contegno, nell’intingere questo pane nell’olio aromatizzato al sambuco con il quale è stato presentato - presentazione completata da una poesia di Neruda dedicata appunto alla condivisione, che viene lasciata a tavola come se fosse, giustamente, una portata da gustare. Il profumo del pane è forse una delle cose più buone al mondo, più del sapore, ha un che di ancestrale e viscerale ed è, sia per me che per lei, per motivi diversi, un qualcosa che ci riporta all’infanzia, all’interno di vecchi forni saturi di farina e bontà, che oggi forse non esistono quasi più. Il secondo pane, servito a metà cena, viene accompagnato da burro artigianale giallissimo, modellato in un piccolo cilindro direttamente al tavolo, in una delle poche concessioni - gradita, d'altronde - fatta alla spettacolarità palesemente esposta. E anche qui, il profumo del burro, il mariage parfait tra grasso e carboidrato, mi riporta ai pranzi del sabato dopo la scuola, dove la tradizione non scritta di casa mia prevedeva che si mangiasse quella che è per me una autentica prelibatezza, piatto umilmente nobile - o nobilmente umile? - ovvero gli spaghetti al burro. Quelli fatti con il burro buono, del caseificio vicino casa che poi ha chiuso, con la migliore pasta di Gragnano. E con il basilico del nostro balcone: perchè se il grano sazia, il burro ingrassa, il basilico stimola e, a un tiro di sasso dalla Liguria, era impossibile per lo chef non farci trovare anche quello, in un'altra preparazione nel corso della cena. Abbiamo capito subito, io e lei, che quella non sarebbe stata una cena di compleanno qualsiasi, ma che sarebbe stato un piccolo viaggio dentro di noi, una sollecitazione costante dei sensi - tutti - che ci avrebbe imposto di farci delle domande, reimpostare i gusti e, in fondo, conoscerci meglio. C’è modo e modo di emozionare il cliente, di prenderlo e trascinarlo in un percorso. La maestria di chi gestisce il Mirazur risiede nella chiarezza mentale, nella folle lucidità con la quale riesce a bilanciare il gusto della singola portata e le diverse portate tra di loro, senza eccedere, con il controllo misurato di cui parlavo prima. Mi spiego: se i due pani, l’elemento più umile eppur fondamentale della tavola, uniscono i commensali nel godimento del sapore, prendendoli alla pancia, facendoli sentire dei bambini, protetti e spensierati e dunque giocando fortemente sull’emotività appunto bestiale, materna, la tartare di gamberi nascosta sotto un mare di petali colorati, arginata da una mousse al limone locale, gioca sull’esteticità estrema sia dell’impiattamento - il gambero, sanremese, emerge come un regalo dal prato fiorito e della corolla dorata del citron de Menton - sia del piatto stesso, una candida alzata dalle morbide curve, che lei, il mio fiore preferito, cinge con le mani affusolate mentre le scatto una foto (e questo mi rimanda a Cecilia Gallerani, ma è un’altra storia). Con la casseruola ramata portata al tavolo, ancora rovente, ripiene di erbe ed odori fumanti, dalla quale emerge uno spiedino d’aragosta e sedano-rapa, dove lo spiedo in sé altro non è che vaniglia, il dolce della vaniglia, quello lussurioso dell’aragosta, sgrassata dal sedano-rapa, incontrano i fumi che emergono dal contenitore, una nuvola di suspance prima dell’ennesima sorpresa, che coinvolge tutti i sensi, nessuno escluso. Non mancano le erbe, i fiori, i protagonisti del giro nell’orto, nasturzio, taggete, pomodori così come gli abitanti del mare che batte la roccia qualche metro più giù di noi, gamberi, granchi, tutto utilizzato con sapienza, equilibrio, non solo un compito ben eseguito - ci mancherebbe - ma un esempio di come un ordine mentale pulito, nella vita prima che nel lavoro, la disciplina, lo studio, portino a risultati stupefacenti, quando le cose vengono fatte con criterio ed amore. L’amore che chi ci ha servito e ci ha accompagnato sui vini, eccellentemente, mostra per il proprio lavoro, condividendo la gioia del cliente, compartecipando con un sorriso di soddisfazione. Una nota di merito appunto va al sommelier, Davide Sala: innamorato del vino e dell’emozione unica che sa regalare, ci ha accompagnati in un Tour de France enoico che ci ha regalato almeno 3-4 etichette nuove da inserire in cantina, spaziando senza problemi tra tutte le tipologie di vino, inserendo tra una portata e l’altra l’aneddoto, la storia, il racconto, la battuta, il tutto sempre con discrezione ed eleganza, condivisi d’altronde con il già citato Alessandro - l’italianità, in una parola, che è stata la marcia in più della serata e che ha aiutato ad eliminare totalmente l’ingessatura che in altri ristoranti “stellati” (si, le virgolette sottolineano l’ironia del tono) è anche maggiore e sembra quasi essere un marchio di fabbrica per entrare in guida Michelin. Un ottimo servizio è sicuramente la base ed un perfetto sommelier è chiaramente un bonus gigantesco, almeno per me, ma quando manca l’alchimia di fondo, un’idea, una gestione oculata, il giusto largo spazio ai giovani, semplicemente non sei in un luogo come il Mirazur, che è diventato quella sera, per me, un luogo del cuore, della mente e anche del resto del corpo.

La tortina all’ibisco servita al culmine della serata, come regalo per il compleanno di lei, portata con tanto di candelina, è stata un tocco di classe ed è stato bello vedere lei commuoversi, sottolineare il momento con gli occhi ed un sorriso, senza bisogno di parole. Anche perché cos’altro aggiungere, quando chi ha cucinato per noi e ci ha servito, ci ha fatto ritornare bambini, per poi crescere piano piano nel ricordo, nell’emozione, nello stimolo di sensi che diamo spesso per scontati? Può sembrare un discorso esagerato, ma lo è, esclusivamente, per chi non ha mai avuto questo privilegio. Ed è stato un privilegio anche stringere la mano allo chef, persona umile, schietta, dallo sguardo guizzante come lo aveva Diego Armando Maradona, suo connazionale. Non sono un fan della mitizzazione degli chef, non comprendo alcune delle logiche dietro la ristorazione moderna, che ho consapevolmente tuttavia alimentato a piene mani e più volte nella mia vita, ma davanti a Mauro Colagreco (e alla sua squadra, ovvio), c’è solo da ringraziare, per averci sostanzialmente preparato una cena indimenticabile e poi averci portato per mano per un percorso mentale, a rincorrere un’idea e a farcela toccare con mano. Usare il cibo come una lingua, strumento di comunicazione e farlo ad altissimi livelli, è un qualcosa di potentissimo, che segna. Segna a tal punto, che quasi non c’era bisogno di parlare in auto, sulla costiera che collega Mentone e Monte-Carlo, direzione casinò, per un’altra puntata di questa storia che, però, terrò gelosamente custodita.


ree

 
 
 

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